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Merleau-Ponty, Maurice.

Filosofo francese. Compiuti gli studi filosofici presso l'Ecole normale supérieure, insegnò in diversi licei francesi tra il 1933 e il 1940, prendendo parte, negli anni dell'occupazione nazista, ai movimenti della Resistenza. Nel 1945 conseguì il dottorato e fu poi professore ordinario presso l'università di Lione, la Sorbona e il Collège de France. Fu uno delle più significative voci intellettuali e politiche del dopoguerra francese. Discepolo ed amico di Sartre, fondò con lui nel 1945 la rivista "Les temps modernes", di cui fu anche direttore e da cui si allontanò nel 1953. Rielaborando in particolare il pensiero di Husserl e Heidegger, e opponendosi sia al riduzionismo scientista sia a mistici spiritualismi, M. propose una soluzione della dicotomia soggetto-oggetto, essere-mondo affermando che, se esiste un senso delle cose che è irriducibile e autonomo rispetto alla soggettività (déjà là), tuttavia esso assume la propria realtà per mezzo di una coscienza che lo "intenziona" e lo percepisce. Da un tale assunto discese la particolare attenzione posta dal filosofo al problema del comportamento (La structure du comportement, 1942) che gli parve risolvibile dalle sole discipline fisico-mediche. Un essere vivente, infatti, era per lui definibile non dalla somma delle sue unità semplici, ma dalla sua concreta e finalizzata totalità, in una visione molto legata alla Gestalttheorie (V.) e all'organicismo di Goldstein. I livelli biologico e mentale di un organismo erano considerati da M. come due gradi differenti di concettualizzazione del comportamento umano. Da tali assunti il filosofo, in Phénoménologie de la perception (1945), elaborò una propria teoria dell'oggettività che in parte si collegava alla posizione di Sartre (nel porre i termini del "per sé" e dell'"in sé"), in parte se ne discostava in una critica profonda (negando che essi fossero alternativi ma, al contrario, andassero letti insieme). Non esiste per M. una sensazione pura, ma un atto di percezione in cui la realtà delle cose viene non pensata ma vissuta, esperita dal soggetto anche mediante il proprio corpo. In quest'opera sono espressi i fondamenti di tutto il suo pensiero (etico e politico), compresa la nozione di "libertà in situazione". In polemica con Sartre (per il quale "dato" e "progetto" non consentono mediazione) egli affermò che la capacità di scelta, pur costitutiva dell'uomo, non si esprime come annullamento della situazione data ma piuttosto come suo trascendimento, come attuazione di un progetto esistenziale che si innesta sulla situazione reale ed è da essa motivata. Perciò la libertà non può essere totale, ma vincolata ad un complesso di significati condivisi collettivamente. Da ciò derivò all'autore anche un grandissimo interesse per la teoria del linguaggio, espressione dei modi sociali di concettualizzazione dell'esperienza, a cui si legò la sua riflessione politica. Soprattutto nel decennio 1945-55, la politica parve infatti a M. la naturale realizzazione del pensiero filosofico e l'adesione al materialismo storico marxista fu da lui vissuta secondo un umanesimo integrale, come processo dialettico di umanizzazione dei rapporti fra uomini e natura, fra uomini e storia. Se in Humanisme et terreur (1947), dedicato ai processi staliniani, egli giunse a una posizione di "comunismo d'attesa", cioè in pratica di sospensione di giudizio, con Les adventures de la dialectique (1955) si consumò la sua rottura non solo col Socialismo reale ma con lo stesso Marxismo, riconoscendo nelle storture sovietiche la dimostrazione dell'impossibilità del progetto rivoluzionario. Da qui l'assunzione di un acomunismo programmatico e la rottura sia con Sartre sia con la rivista. Nelle sue ultime opere (Signes, 1960; Le visible et l'invisible, 1969 postumo e incompiuto) M. si volse a un'indagine più ontologica che gnoseologica (Rochefort-sur-Mer 1908 - Parigi 1961).